Guerra e Fellini, cioè, disarmano il loro lettore imponendogli, come comune, una universale visione dell’esistenza e una unica possibile versione delle cose. Preso alla sprovvista il lettore (tutti i lettori sono ingenui) sta subito al gioco: si lascia disarmare come un bambino, e contraccambia le pacche sulle spalle e l’allegria un pò* nefanda da scampagnata vagamente blasfema con cui gli autori lo incantano e lo ricattano. Cosi plagiato, il lettore (con un certo disgusto che egli però non approfondisce, un po’ per non dispiacere ad anfitrioni cosi gentili e ospitali, un po’ per vedere – ingenuamente — come le cose andranno a parare) finge di esser convinto di aver passato le prime esperienze della vita in quel Borgo romagnolo di Guerra e Fellini, di aver conosciuto quella buona gente, e di esprimere su loro lo stesso giudizio: un giudizio sospeso, tra una bonarietà da sacrestia e un ghigno da casa dello studente.
Procedendo con la lettura, però, ci si accorge che tale giudizio – com’era lecito sospettare – non è qualunquistico: il suo restare sospeso e privo di livelli, come se ogni uomo valesse cinicamente ogni altro uomo e ogni condizione umana valesse cinicamente ogni altra condizione umana (perché no, del resto?), non è dovuto al qualunquismo ma a una disposizione verso la realtà che, della realtà, coglie prima di tutto il momento enigmatico che sospende e livella ogni cosa, appunto nella sostanziale impossibilità di ogni interpretazione. L’umanità e la storia sono fenomenologia pura.
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