La fine di Atlantide. Nuove luci su un’antica leggenda – di J.V.Luce

Newton Compton 1976
2° edizione settembre 1997
Formato 13,5×22 Pgg 173 + 48 fuori testo con fotografie
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Patrono dell’Atlantide era il dio Poseidone. La casa reale di Atlantide discendeva da cinque coppie di gemelli tutti di sesso maschile, nati dall’unione di Poseidone con una fanciulla mortale di nome Cleito. Il maggiore dei gemelli si chiamava Atlante e l’intera isola e l’oceano circostante presero il nome da lui. L’Atlantide fu suddivisa tra i dieci figli di Poseidone sotto la signoria di Atlante. I loro discendenti governarono in successione per molte generazioni e il loro dominio si estese su molte isole e su tratti della costa mediterranea fino all’Egitto e all’Italia.
Essi divennero enormemente ricchi in parte grazie alle risorse dell’isola e in parte con il commercio. L’Atlantide era ricca di minerali, di metalli e di legname e possedeva una ricca fauna e flora, elefanti compresi. La collina, sulla quale era vissuta in principio la fanciulla Cleito, era stata circondata da Poseidone con due cerchi concentrici di terra e tre di acqua. Dopo che questa collina divenne la metropoli dell’impero atlantideo, gli abitanti vi costruirono un palazzo reale, gradualmente abbellito e ampliato dai re fino a trasformarsi in una meraviglia per la vastità e la bellezza. Strade e ponti collegavano la cittadella con i cerchi di terra circostanti e col resto dell’isola.

Al centro della cittadella interna sorgeva un tempio consacrato a Poseidone e Cleito, splendente di argento, oro, avorio e oricalco. Vi si trovava una statua colossale del dio in atto di domare sei cavalli alati, attorniato da cento nereidi su delfini. Il luogo era abbondantemente fornito di sorgenti calde e fredde e su uno dei cerchi di terra si trovava un ippodromo. L’intera metropoli era cinta da una serie di mura e i suoi porti erano sempre gremiti di navi.
A ridosso della città si stendeva una piana oblunga di 3000 per 2000 stadi, suddivisa in 60.000 appezzamenti di dieci stadi quadrati ciascuno. Un complesso sistema di grandi dighe per l’irrigazione circondava e attraversava la pianura. Questa era aperta verso mezzogiorno ed era riparata a settentrione da molte grandi c belle montagne con fiumi, laghi praterie e grandi foreste. Le coste dell’isola erano per lo più ripide e scoscese.
Su un pilastro di bronzo nel tempio di Poseidone era inciso un codice di leggi e i re si riunivano colà allo scadere di periodi alternati di quattro e cinque anni, per tenervi l’assemblea generale e amministrare la giustizia. Prima di promulgare le leggi essi dovevano cacciare i tori che vagavano liberi nel recinto del tempio e catturarne uno per il sacrificio senza far uso di armi, ma soltanto di pertiche e lacci. Il toro era sacrificato in modo che il sangue scorresse sulla sacra iscrizione del pilastro. Dopo il sacrificio libavano agli dèi, bevevano e mangiavano e poi, coperti di vesti azzurre, tenevano il tribunale durante la notte. All’alba iscrivevano le sentenze su una tavoletta d’oro che dedicavano in ricordo insieme con le vesti.
Col passare del tempo il livello di giustizia dei re decadde ed essi divennero avidi di ricchezze e di potere, al che Zeus, per punirIi, riunì gli dèi a concilio e parlò così… E qui il frammentario Crizia ci lascia con la voglia di sapere nel bel mezzo della frase, né sappiamo perché Platone non l’abbia mai finito. Plutarco dice che egli l’aveva cominciato molto tardi e che non se la sentì di completare l’opera.

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