La civiltà del Rinascimento in Italia – di Jacob Burckhardt

Rarissima edizione particolare realizzata usando il carattere tipografico Cheltenham, ad alta leggibilità e basso affaticamento della vista.
Carta della cartiera Pigna di Alzano Lombardo, con solo il 30% di pasta legno per assicurare lunga durata e resistenza all’invecchiamento.

Edizione Club su licenza Sanzoni 1992
Formato 14,5×23 – Pgg 345
Copertina cartonata telata con fregi oro e sovraccoperta stampata.

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Jacob Burckhardt

Il modo migliore per comprendere Burckhardt, e allo stesso tempo “liberarsi” di lui, è rileggerlo oggi come monumento di un Ottocento in cerca di se stesso. «Il fenomeno fondamentale dei nostri giorni è il sentimento della provvisorietà… – scriveva il grande basileese -; non appena ci stropicciamo gli occhi ci rendiamo conto… di essere su una dei milioni di onde messe in moto dalla Rivoluzione». Già, perché, al Rinascimento Burckhardt era arrivato per tentar di capire, e possibilmente riparare, la frattura epocale portata dalla rivoluzione francese. Naturalmente avverso a quello che riteneva il pericoloso egualitarismo rivoluzionario, Burckhardt cercò d’individuare il codice genetico dell’uomo moderno, quell’avventato Prometeo che si arrogava il diritto di afferrare il divenire con le proprie mani.
Come c’era da aspettarsi, per il professore svizzero tutti i guai erano cominciati a sud delle Alpi. Ma erano guai affascinanti, ricchi di tinte forti come un diario sentimentale del Grand Tour. Burckhardt scriveva negli anni della riunificazione della Penisola, quando l’Italia, da grande addormentata d’Europa, si stava trasformando in prodigio di modernità. In tutto il continente, e anche al di là dell’Oceano, si diffondeva un nuovo interesse per il nostro Paese, non più visto come semplice magazzino di opere d’arte, ma come cultura vitale, e anzi come modello da imitare.
A questa moda ottocentesca il libro di Burckhardt contribuì in maniera determinante, facendo scoprire alla borghesia colta i fasti dell’individualismo italico: «Questo popolo impressionante! Questa primogenitura dell’Europa… le parole dell’Alfieri sono ancora valide: l’Italia è il Paese dove la pianta uomo riesce meglio che altrove». Una pianta vigorosa, che tuttavia, secondo Burckhardt, aveva messo radici in una disperata realtà di anarchia e sopraffazione. Le sue descrizioni delle Signorie tre-quattrocentesche, colme di congiure, avvelenamenti e fratricidi, raggiungono spesso toni romanzeschi. Egli riteneva, tuttavia, che proprio dalla percezione d’illegittimità e incertezza della vita sociale fosse nata una lucidissima capacità d’analisi, ovvero la scienza oggettiva del reale, assieme a quella soggettiva, e altrettanto rivoluzionaria, della coscienza di sé. Sopravvivere e prosperare in condizioni di estrema instabilità sociale significò, per gli uomini del Rinascimento, sviluppare una nuova percezione dell’agire umano, basata sull’adeguatezza tra mezzi e fini.

Certo, molte idee appaiono oggi invecchiate, come, per esempio, la convinzione che il Rinascimento sia stato essenzialmente un movimento laico di affrancamento dalla religione, o che si sia sviluppato quasi esclusivamente nei centri maggiori, in particolare a Firenze. Nonostante questo, per chiunque condivida l’opinione che la storia debba essere innanzitutto un racconto «sull’uomo che patisce, che anela e che agisce», il vecchio signore dei mille franchi svizzeri è ancora un’ottima guida.

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